
La vicenda inizia nel 2005, quando la donna conosce in rete l’uomo che anni dopo avrebbe iniziato a ricattarla. Per conquistare la sua fiducia, traendola in inganno, lui le dice di avere 21 anni e di essere un carabiniere. Tra i due nasce un’amicizia on line che gradualmente si trasforma in un rapporto più intimo, pur rimanendo virtuale. I due infatti non si incontreranno mai di persona. Nel 2010 la donna si arruola nell’Arma. Ed è allora che acquisisce maggiore consapevolezza, probabilmente anche grazie alla professione intrapresa. Decide di troncare la relazione scoprendo inoltre che l’uomo non è realmente un Carabiniere. Da quella decisione di chiudere i rapporti con l’uomo, scatta il ricatto da parte di lui. Da lì in poi, l’escalation della violenza: prima in maniera velata, «fai attenzione, ricordati che
ho le tue foto». Poi: «Se non fai quello che ti dico, tutti sapranno».

E così via, per 5 anni lunghissimi anni, trasformando la vita della collega in un incubo. L’uomo la costringe a riprendersi il volto, a mandargli immagini di autoerotismo, senza mostrare alcuna pietà nei suoi confronti.
E iniziano anche gli atti persecutori: per incuterle ancora più ansia e angoscia diventa capace di riferirle fatti inerenti la sua vita privata. Le dice di sapere a che ora esce, dove e con chi. A un certo punto sarebbe anche riuscito a inviare immagini della donna ad alcuni amici su Facebook.
Non contento, l’avrebbe minacciata di fare dei volantini con le immagini di lei nuda, da appendere anche vicino alla caserma dove lei presta servizio: «Le pubblico perché tutti sappiano» “Mandami tue foto dove sei nuda o dico tutto a tua madre e ai tuoi superiori”.
Un’ossessione e una minaccia senza fine. Nel 2015 la donna trova finalmente il coraggio di sporgere denuncia. Si confida con i colleghi che, supportandola, la aiutano a uscire dall’incubo. Il P.M. Paolo Scafi della Procura di Torino valuterà quelle minacce, quei ricatti e quella progressiva insinuazione del sentimento della paura al pari di una violenza sessuale. Un pessimo stereotipo piuttosto diffuso è quello che tende a colpevolizzare chi ha deciso di filmarsi o inviare in confidenza del materiale ‘bollente’. Giudicare come “umilianti” quei contenuti virtuali, definendoli una condotta in qualche modo disonorevole, che non si addice alle “brave ragazze”, finisce per isolare e colpevolizzare chi li ha prodotti e non chi li ha diffusi.
Inoltre, vivere la propria sessualità in maniera libera e senza paura non è disdicevole, ma sano. Patire una violenza di questo tipo non rappresenta un’umiliazione da cui non ci si può riprendere mai più. È un episodio che non dice niente del valore morale di una persona: chi la subisce non può e non deve essere giudicato o stigmatizzato.
CONSENSO è la parola chiave che delinea perfettamente i confini del revenge porn. Credere di possedere la vita di una persona e di poterla distruggere a piacimento è un comportamento che trova sfogo in tutti i tipi di molestie e abusi e che va per questo combattuto sempre. Lottare contro questo tipo di violenza fa parte del nostro mestiere!
Nuovo Sindacato Carabinieri
#IlSindacatodelCarabiniere